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N.O N.ON OR.A N.ON .QUI.



Comunicato stampa (di Giorgia Bergantin)

L’artista Daniele Gagliardi apre le porte del proprio studio insieme a Giorgia Bergantin, curatrice dell’evento, e Mattia Cattaneo, autore del testo critico. Un’occasione d’incontro all’interno del luogo di lavoro dell’artista, allestito con le ultime opere realizzate.

(Guastalla, 6 dicembre 2021)

Immerso nella campagna reggiana, a pochi chilometri da Guastalla, Daniele Gagliardi lavora al piano terra di un’antica stalla ristrutturata. L’open studio intitolato N.O N.ON OR.A N.ON .QUI. si è tenuto sabato 18 e domenica 19 dicembre 2021.

L’atelier di Daniele Gagliardi accoglie spesso Mattia Cattaneo, amico di riflessioni e autore di testi critici per riviste d’arte, e Giorgia Bergantin, sua curatrice di progetti recenti. Insieme hanno deciso di organizzare un momento di condivisione nel contesto molto personale del luogo di lavoro dell’artista. L’allestimento pone in dialogo alcune opere realizzate negli ultimi mesi e lo spazio laboratoriale, nel disordine di strumenti, oggetti e libri.

«Il titolo dell’evento riprende un verso della canzone Depressione caspica dei CCCP Fedeli alla linea. Questo brano narra di un momento di caduta, una frana del proprio sentimento -dichiara Gagliardi- e per certi aspetti questa scena così prolifica potrebbe riferirsi anche all’atto artistico».

Sarà un’occasione informale per poter conoscere la ricerca artistica di Daniele Gagliardi, osservare da vicino le sue tele, carte e disegni, approfondire le tecniche da lui utilizzate, accompagnati da un bicchiere di vino.




GIORGIA BERGANTIN

Lo studio di Daniele è immerso nella campagna reggiana, nei pressi di Guastalla. Al di là delle finestre dell’antica stalla ristrutturata dove Daniele lavora, alcuni caprioli pascolano silenziosamente vigili. Preferiscono lo sguardo lontano, al passo vicino. Quale uomo non vorrebbe tramutarsi in questo animale, almeno il tempo di un abbaio? Seppur pronti alla fuga, trascorrono con calma quel loro attimo vitale. Quotidianamente si concedono la quiete. N.O N.ON OR.A N.ON .QUI. è una tregua voluta. L’open studio di Daniele Gagliardi è stato concepito insieme alla sottoscritta e a Mattia Cattaneo, autore del testo critico, con l’intento di proporre una situazione informale di condivisione di pensieri. Chiunque, per stima, conoscenza, curiosità, nei confronti del lavoro di Daniele, ha ora l’occasione di abitare quel luogo in cui l’arte si fa, l’arte è. Il titolo dell’evento riprende un verso della canzone Depressione caspica dei CCCP Fedeli alla linea. Questa negazione breve ed incisiva racchiude l’episodio di una caduta, di una frana del proprio sentimento, che per certi aspetti Daniele paragona all’atto artistico. Lo stato particolare che vive l’artista quando crea, si avvicina a questa condizione di inno e lamento, in cui una catastrofe si manifesta in un luogo che non è nello spazio e in un istante che non è nel tempo. In questo non ora non qui, dissipate le dipendenze da cose e persone, nessun comandamento, proprio o imposto, regge. Il pensiero, assolto da vincoli, assorbe le vibrazioni del presente. L’artista cerca l’evasione, che non è sconfitta, ma presa di coscienza, indifferenza nel qui e rinascita nell’altrove. Sorpreso ed accerchiato, venera accanito la vita continuando a fare, ad essere. Di fronte ad un’opera (come ad una poesia, una fotografia, una canzone) ci appropriamo di qualcosa la cui origine rimane inespressa. Siamo sospesi tra ciò che già è accaduto in nostra assenza, e ciò che è. Il momento della genesi e formazione di un’opera non è pienamente descrivibile, si tramanda solo a posteriori con il linguaggio differito della parola. L’atto artistico rimane intraducibile anche allo stesso artista, che nel fare trascorre un non ora non qui senza eguali. In mostra le ultime opere realizzate da Daniele nel suo attuale studio, nel disordine di strumenti, oggetti e libri. I disegni e le tele esposte parlano di un mondo visionario in cui uomini e animali convivono, in lotta o in pace, e senza futuro consumano i propri non ora non qui. Le sue opere, così lontane dalla realtà, popolate di figure riconoscibili che stanziano tra segni, macchie, presenze indecifrate. Scuotono il mio immaginario. Osservandole ed interrogandomi di quel che guardo approdo spesso a racconti epici come questo:

Quegli uomini erano scomparsi da un tempo divenuto ormai indecifrabile perfino ai loro cari. Nessuna notizia, lettere o dicerie. Si pregava per le loro anime; i loro corpi erano già spacciati. In alcuni momenti di fitta disperazione, desideravano la morte, la fine di quella nomade agonia. Invece sopravvivevano sempre. Perseguitati da continue inondazioni, pellegrinavano verso il vuoto. Calpestare il suolo era il loro gesto quotidiano, atto di vita. Di libertà o dannazione? Le loro coscienze si assentavano per lunghi periodi, sconfitte di fronte ad una realtà così scontata. Si risvegliano solo al canto di certi animali, unici moniti insieme alla sporadica vegetazione. Miseri uomini vagano nella stessa terra di miseri branchi. Le loro esistenze erano infangate, il loro solo ed unico destino poteva essere una pioggia torrenziale.

L’opera è il pensiero dell’artista di un momento a posteriori. Continuerò a parlare di me, non dell’opera, che è poi la stessa cosa, contorta, mutevole e fuorviante – afferma Daniele.



MATTIA CATTANEO

L’immagine non si può sapere – è questo quello che penso ogni volta che varco la soglia di questo studio (del resto questi grandi teleri compaiono senza che io abbia mai visto Daniele all’opera) –. Questo “non sapere”, lo dico a scanso di equivoci, va inteso in senso assoluto: significa cioè non sapere dove questa immagine funzioni, come guardarla e chi la ponga in essere (ma soprattutto quando questo accadrebbe: quando l’artista ci mette mano o quando quella stessa mano egli la leva?). Eppure il seguente breve testo non vuole essere in alcun modo un discorso a favore del soggettivismo più naïf – < Non so perché, ma questa cosa mi piace! > –, quanto piuttosto un modo per insistere sulla meontologia radicale che sottendono queste grandi superfici (ricordo che me on, cioè il μή ον greco, potrebbe tradursi con uno spurio “quasi/forse essere”).

La “buona immagine”, cioè, è quella che, al limite, non si sa nemmeno perché sia effettivamente poi così buona, e tuttavia la si riconosce comunque (e con certezza) tale. Questo sapere iconico, essendo appoggiato sopra nessuna certezza, è allora un sapere a metà: presieduto da una profonda conoscenza che però, al momento del bisogno, non risulta utile in alcun modo. Ma perché accade tutto questo? Perché, come dice una certa teologia, «Dio è conosciuto attraverso la conoscenza e l’ignoranza» (corsivo mio, Dionigi). Questo significa, tra le altre cose, riabilitare al livello più centrale del meccanismo epistemico una certa modalità positiva (ma mai positivistica) di “non sapere”; poiché il fatto qui non è, come vorrebbe un certo platonismo spiccio (a tratti, ahimè, retorico), di manifestare la propria finitudine intellettuale affermando di “non sapere” quello che non si sa – «[...] Ciò che non so, neppure ritengo di saperlo» (21d, Apologia) –, bensì piuttosto di testimoniare la sovrabbondanza epistemica dell’oggetto da conoscere a ragione di tutta la nostra buona partecipazione intellettuale. Il vero problema da sollevare allora – soprattutto qui, cioè nell’ambito creativo tout court – è quello di capire come fare dell’effettivo “non sapere” (ignoranza) una certa modalità positiva di conoscenza (docta ignorantia).

Poiché è innegabile, forse – me lo si perdonerà – addirittura scontato: non solo, 1} dal punto di vista pragmatico del pittore, la buona immagine si costruisce distraendosi, cioè annullando ogni ipotesi predeterminativa o ideativa che sia (il pittore sa che non bisogna mai cercare di “immaginare” le immagini a venire, bensì piuttosto di dimenticare le migliori tra quelle che ha già prodotto); ma anche 2}, dal punto di vista esterno degli osservatori, la definizione di immagine la si può solo immaginare in un modo indefinito (o tuttalpiù, in un gioco di specchi ancora più paradossale, la definizione di “immagine” diventa un fantasma, un riflesso, un sogno, etc., di definizione). Se le immagini allora non si possono sapere, bisogna giocoforza confessarci un segreto: l’oggetto par excellence delle discipline che lavorano con le immagini (dalla pittura stessa fino alla critica d’arte) non si può in alcun modo sapere semplicemente “come sapere”, ma è necessario piuttosto conoscerlo “come ignorato”, saputo cioè ma come dimenticato. Che sia, questo, un sapere a predominanza inconscia? La riprova di tutto ciò sta nel fatto che, qualora si provasse ad intendere l’immagine procedendo unicamente per una via scientifica – secondo i crismi più all’avanguardia della chimica, della storiografia, dell’archivistica, financo dell’estetica, etc. –, ebbene dell’immagine in questione non rimarrebbe più nulla fuorché quel materiale algido e sterile che, preso singolarmente, la compone a livello sovra-molecolare (i fili di cotone della tela, il tal legno della cornice, etc.). «[...] Più guardo, meno conosco – e meno conosco più ho bisogno di sapere [...], sapendo bene che la risposta a quest’esigenza di sapere non risolverà mai pienamente» (Georges Didi-Huberman) nessuno dei quesiti posti frontalmente dall’immagine. Proprio allora delle immagini più riuscite – come queste grandi vele – si ha poco o nulla da dire: bisogna dire non solo che < Non c’è nulla da dire >, ma anche che qualsiasi cosa si dica non sarebbe funzionale in nessun modo alla comprensione ulteriore del quadro. «Quello che dovete sapere: ignorate ciò che sapete» (Jacques Lacan). Poiché se è vero che anche davanti all’immagine non bisogna perdere del tutto la ragione – ritorno alla critica al soggettivismo posta in apertura –, è anche vero però che non bisogna nemmeno elevarla a mezzo unico di conoscenza. Bisogna sì cioè essere lucidi (nel senso razionalistico della lo- cuzione), ma anche preservare nella visione una certa lucentezza (“avere gli occhi lucidi”). «Gli occhi sgranati di chi, incantato, guarda il mondo sensibile testimoniano a sfavore della pretesa avanzata dal sapere e dalle sue categorie di dire l’ultima parola circa la relazione che ci lega al mondo» (Rocco Ronchi). Forse, il sapere delle immagini, è in fin dei conti fortemente istintivo – una sorta cioè di sapere animale –. Ci fermiamo spesso, io e Daniele, a guardare i caprioli pascolare qui fuori nel campo di erba medica. Ma la questione da risolvere - e ciò vale anche per la sua pittura - è sempre la seguente: dove riposa il lupo?





Bio

Daniele Gagliardi.

Laureato in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Bologna nel 2018. Artista visivo, si esprime principalmente con disegno e pittura su carta e tessuto. Sperimenta la pratica installativa di materiali di scarto come legno e ferro. Ha partecipato a vari progetti espositivi personali e collettivi. Ha realizzato la residenza SUBSTANZA nel 2018 presso il Centro PortaAperta di Modena, a cura di Alessandro Mescoli e Laura Solieri. Fino a gennaio 2022 espone alle Gallerie Civiche di Palazzo Ducale a Pavullo nel Frignano per la mostra collettiva Ultraromanticismo – Il post umano tra inquietudini e abbandono a cura di Ricognizioni sull'arte. Lavora, inoltre, come assistente scenografia su progetti audiovisivi per cinema e tv.


Giorgia Bergantin.

Curatrice e critica d’arte contemporanea. Dal 2019 cura mostre di giovani artisti, scrive testi critici e pubblica articoli in testate giornalistiche di settore. Dal 2021 si dedica al mondo della comunicazione culturale collaborando con l’ufficio stampa di Chiara Vedovetto. Laureata in Arti Visive all'Università di Bologna, ha frequentato il corso in Pratiche curatoriali e Arti contemporanee alla School for Curatorial Studies Venice di Venezia, il laboratorio curatoriale del MAF - Museo Acqua Franca di Milano e il corso di formazione O.P.E.R.A di Cescot Padova sul Personal branding culturale, vinto il bando 2020 dell’European Solidarity Corps – Solidarity Projects insieme al gruppo informale Marea.


Mattia Cattaneo.

Laureato cum laude alle Accademie di Belle Arti di Bologna prima e Milano poi. È stato Assistente alla cattedra di Luca Bertolo, Collaboratore alla Didattica all’Accademia di Belle Arti di Bologna, docente di Discipline Pittoriche e Storia dell’Arte nella scuola secondaria. Fa parte della redazione della rivista scientifica “Aracne-rivista” (ISSN 2239-0898, Area 10, valida per A.S.N.) con cui ha pubblicato molteplici studi ora tutti raccolti in: Iconolibidica. Scritti sulla passione dello sguardo. Ha fondato e dirige la fanzine di cultura visiva “A.” e il blog di critica sociale “A Piena Voce” . I suoi scritti sono apparsi in “Gazzetta Filosofica”, “PresaMultipla”, “Antinomie”, “Zuper – ViaGulli37”. Un suo saggio appare nel catalogo Ultraromanticismo. Il post umano tra inquietudini e abbandono (ISBN 979-12-200-9553-2, Modena 2021). Le sue ricerche teoriche vertono attorno ai fantasmi che si porta sempre appresso ogni immaginario.



studio Daniele Gagliardi



- nel nome del lupo - 2021, olio e grafite su tela grezza, cm 160x188.



- ipotesi e sogno - 2021, olio e grafite su tela grezza, cm 216x260.



- strati empirici - 2021, olio e grafite su tela grezza, cm180x260.


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